Giuliano Dinarelli, La condanna e il martirio dei quattro santi coronati, olio su tela
Giuliano Dinarelli (1629-1671)
La condanna e il martirio dei quattro santi coronati
Olio su tela, 47 x 61 cm
Metà XVII secolo
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oggetto corredato da certificato d'autenticità e di expertise (allegato a fondo pagina)
Il dipinto raffigura la condanna e il martirio dei quattro santi coronati: Claudio, Nicostrato, Castorio e Sinforiano. In primo piano a destra, dietro a un tendaggio e in posizione rialzata da tre gradini in pietra, siede la figura di un re con un braccio alzato in atto di comando: si tratta dell’imperatore Diocleziano mentre pronuncia la sentenza, indicando una scultura classica del dio Apollo. Al suo cospetto sono condotti due uomini con le braccia legate. A sinistra del re, altri due uomini, forse facenti parte del tribuno, prendono parte alla scena. Sulla sinistra, in secondo piano, due uomini, inginocchiati e con le braccia legate sulla schiena, stanno subendo il martirio, come indica il gesto feroce dell’uomo che a braccia levate sorregge una lunga spada, poco prima di accanirsi al massacro. Accanto, un gruppo di persone e soldati armati osservano; in cielo un putto alato porta la palma del martirio. I soggetti sono raffigurati in abiti storici e la scena in primo piano è ambientata all’interno di un palazzo con pavimento in marmo. Un giullare siede sui gradini, intento a giocare con un cagnolino.
Claudio, Nicostrato, Castorio e Sinforiano, raffigurati nell’opera due al cospetto di Diocleziano e due durante il martirio, erano abili scalpellini. Secondo la tradizione agiografica (è il Sacramentario Gregoriano del VII sec a offrirne qualche scarna notizia) lavoravano nelle cave di marmo e porfido di Sirmium in Pannonia (l’attuale città serba Sremska Mitrovica). La loro bravura li fece ritenere, dai loro compagni operai, dei maghi in quanto, prima di iniziare un lavoro, tracciavano segni di croce, recitando inni e preghiere, scambiati per formule magiche. L’imperatore Diocleziano essendosi recato in Pannonia per trovare marmi per i suoi edifici, ne ammirò molto la qualità artistica e ordinò loro colonne ed elementi decorativi per il suo palazzo di Spalato, in Dalmazia, che edificò tra il 293 e il 305 d.C.. Tuttavia, un giorno gli commissionò, oltre a genietti, vittorie e figure mitologiche, una statua di Esculapio, il dio della salute. I quattro artisti, essendo segretamente cristiani, eseguirono tutto quanto fu a loro richiesto, ma non la statua della divinità pagana, che si rifiutarono di realizzare. Interrogati direttamente dall’imperatore, confessarono la loro religione. Furono processati e flagellati dal tribuno Lampedio, perché abiurassero la loro fede. Di fronte al loro rifiuto, vennero rinchiusi in casse di piombo e gettati nelle acque del fiume Danubio. Simpliciano, cristiano e loro compagno di lavoro, ne recuperò le spoglie tentando di darne sepoltura. Sorpreso nel gesto, fu condannato a morte anch’egli. Nel medioevo divennero patroni dei muratori, degli scalpellini, degli scultori e delle corporazioni edili. La raffigurazione della loro condanna e del martirio è abbastanza rara in pittura. Tuttavia è possibile delinearne l’iconografia, nella quale si evidenziano alcune caratteristiche: il numero dei martiri, l’imperatore che indica l’idolo e la palma del martirio.
La scena raffigurata nell’opera oggetto di studio, dunque, ritrae Diocleziano in atto di mostrare la statua, in questo caso, del dio Apollo, che gli scalpellini si rifiutano di adorare. Sulla destra si compie il martirio vero e proprio: due dei santi vengono flagellati e finiti a colpi di spada, mentre dal cielo un angioletto porge la palma identificativa del martirio. La statua raffigurata è da identificarsi in quella di Apollo Citaredo, contraddistinto dalla cetra e il mantello. Esistono diverse sculture greco romane che lo raffigurano con diverse varianti compositive, una delle quali potrebbe essere stata liberamente interpretata dal pittore.
Sul retro della tela, è affissa al telaio un’etichetta riportante la scritta con calligrafia antica “Giuliano Dinarelli Ping(eb)it”. L’opera appare dunque già assegnata in epoca non recente al pittore bolognese Giuliano Dinarelli (1614-1629). Il confronto stilistico con opere dell’artista suggerisce tale attribuzione verosimile, benchè sia ad oggi ancora assai scarso il corpus di lavori certi e attribuiti a Dinarelli. Altrettanto scarne sono le informazioni sulla vita del pittore, che sappiamo essere stato allievo molto caro a Guido Reni. Dinarelli nasce a Bologna, fratello di Tadea Dinarelli, madre di Giovanni Girolamo Bonesi. Quest’ultimo si forma nella bottega dello zio, prima di terminare gli studi di pittura con Giovanni Maria Viani. Lanzi annovera Giuliano Dinarelli tra gli allievi di Guido Reni e nell’inventario del conte Antonio Baglioni del 1680, sono segnalate sue opere due ottangoli con Sante. Tra le opere note vi è poi il dipinto raffigurante l’Angelo custode realizzato intorno al 1660 e conservato nel pilastro tra la settima e l'ottava cappella a destra della Chiesa di Santa Maria dei Servi, a Bologna. L’opera è ricordata in tutte le fonti storiche e nelle guide della città ed è, nel corpus di opere note del pittore, la più celebre. Dinarelli è ricordato attivo a Bologna e specializzato in scene a carattere religioso. La Diocesi di Imola conserva alcune tele del pittore raffiguranti un Ecce Homo, una Madonna Addolorata, San Pietro e Santa Maria Maddalena. Attraverso la lettera di Ferdinando Cospi a Leopoldo de' Medici del 1675, veniamo inoltre a conoscenza di un Ritratto di donna che lo stesso Cospi propone in vendita, asserendo di essere opera “fatta da maestro da me conosciuto poco fa morto chiamato Giuliano Dinarelli, uno de' buoni allievi di Guido Reni che ha dipinto molto bene et imitato il suo maestro”. L’esistenza infine di un dipinto di Dinarelli effigiante Antonio Colonna è testimonianza di una committenza di pregio e, pertanto, di un riconoscimento artistico che il pittore ebbe presso la nobiltà del tempo.
L’opera, in buono stato di conservazione e recentemente restaurata, è arricchita da importante cornice coeva, intagliata e dorata.
Carlotta Venegoni