SPLENDIDO AGAR ED ISMAELE SOCCORSI DALL'ANGELO - FILIPPO LAURI (EXPERTISE)

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Seguici su @memeantiquariato Filippo Lauri (Roma, 1623-1694). Olio su tela, 1650-1660 c.a 110 x 140 cm. Da expertise del Dott. Alessandro Agresti: "Nella nostra tela è chiaramente riconoscibile l’episodio di Agar e Ismaele nel deserto: narra il...
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Filippo Lauri (Roma, 1623-1694). Olio su tela, 1650-1660 c.a 110 x 140 cm.

Da expertise del Dott. Alessandro Agresti:

"Nella nostra tela è chiaramente riconoscibile l’episodio di Agar e Ismaele nel deserto: narra il racconto biblico (che ritroviamo nel libro della Genesi) che Abramo ebbe un figlio dalla sua schiava, Agar, che chiamò Ismaele e che fu il suo primo erede, anche se illegittimo: infatti la moglie Sara non poteva avere figli e per questo motivo offrì al marito proprio la sua servitrice. Non molto tempo dopo la moglie del patriarca rimase miracolosamente incinta: nacque quindi Isacco, il legittimo discendente; Sara, presa da gelosia vedendo i due ragazzi giocare tra di loro, intima al consorte di cacciare Agar e Ismaele. Abramo acconsente quando sente il Signore dire: Non ti dispiaccia questo, per il fanciullo e per la tua schiava: ascolta la parola di Sara in quanto ti dice, ascolta la sua voce, perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò diventare una nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole. Il dipinto segue poi il testo in modo fedele: finita la scorta d’acqua, perdutisi nel deserto, il ragazzo, stremato, viene fatto fermare sotto un cespuglio mentre Agar, piangente, aspetta la fine. A quel punto Dio, sentendo i lamenti di Ismaele, manda in soccorso ai due un messo celeste indicandogli un pozzo d’acqua: Che hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo…Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano…Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua. Ecco allora il fanciullo al centro riverso a terra quasi privo di sensi, la donna piangente che si rivolge all’angelo il quale, a sua volta, le indica una ‘meta sudans’ alla quale si potranno abbeverare. Stilisticamente, l’opera è pianamente collocabile nella koinè del Barocco romano, e palesa una non comune capacità, da parte del suo artefice, di adoperare influssi di una certa varietà declinandoli con un linguaggio pittorico molto personale: ad esempio la nobile figura, alata, colta in una ponderazione ispirata alla statuaria antica, nella nitidezza di visione che la contraddistingue, sostanziata dal disegno accorto, dalla luce lunare, risente delle poetiche di un Andrea Sacchi come del primo Maratti - cioè quel che di più raffinato poteva offrire il classicismo in quel momento - mentre il ricco panneggio dagli ampi risvolti, a conferire un ulteriore dinamismo e una certa spettacolarità, palesa il deciso ascendente di Pietro da Cortona (anche nella anatomia di una certa possanza). Lo cogliamo anche nella patetica schiava di Abramo, avvolta dalle vesti dalle pieghe allungate che aderiscono al corpo, del quale in tal modo possiamo indovinare la reale consistenza come nel giovinetto riverso a terra, in tralice, che si avvita nello spazio creando un convincente senso di profondità in pittura. Ed è degno interesse proprio questo equilibrio tra astrazione, nelle epidermidi allisciate, nella luce fredda, nel puntiglio tutto nordico con cui sono resi alcuni dettagli, e la ricerca di verosimiglianza nel tradurre il racconto biblico per immagini non solo in modo convincente, ma in modo che il riguardante ne sia coinvolto. Alla calcolata impaginazione ordinata dalla diagonale discendente lungo la direttrice sinistra - destra fa riscontro il libero vibrare delle fronde che quasi casualmente, in modo molto verosimile, paiono essere cresciute nella radura: notevole è la libertà d’esecuzione con cui sono formate tramite una materia densa stesa alla prima, sovrapponendo le pennellate in modo da restituire il loro progressivo scalarsi in profondità non che le molteplici risultanze della luce. Alla velocità del pennello si associa il fare particolareggiato, la tensione grafica con cui sono dipinti foglia per foglia questi cespugli, che come le quinte di un teatro incorniciano la scena. La quale, proprio per la così spiccata tensione alla resa paesaggistica - che occupa inaspettatamente molta parte della superficie della tela - come per la piana narratività con cui l’evento miracoloso è restituito in modo alquanto pacato e decoroso, con una leggiadria che pare quasi più confacente a una favola pagana che a una storia edificante - qua dovrebbe essere rappresentata la Provvidenza divina - acquista un carattere di originalità, alquanto inconsueto nel panorama artistico romano del pieno Seicento.

Mi pare che confronti pertinenti permettano di restituire il dipinto sub judice al pennello di Filippo Lauri…"

 

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