Dipinto crocifissione olio su tela, 174 x 109 bottega dei Fiamminghini, secolo XVIII

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Soggetto: crocifissione Tecnica e dimensioni: olio su tela, 174 x 109 Autore: bottega dei Fiamminghini , secolo XVIII   Il taglio strettamente popolare dell’ambientazione, la rese delle figure, tutte pervase da un acceso dinamismo che si impone, tra l’altro,...
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Soggetto: crocifissione

Tecnica e dimensioni: olio su tela, 174 x 109

Autore: bottega dei Fiamminghini, secolo XVIII

 

Il taglio strettamente popolare dell’ambientazione, la rese delle figure, tutte pervase da un acceso dinamismo che si impone, tra l’altro, anche nella scelta cromatica improntata ad una forte luminosità, l’omaggio tributato nel paesaggio alla tradizione fiamminga (che evoca soggetti analoghi dei primitivi, da van der Weyden a Memling, a van Eyck) nella collocazione e resa del tessuto urbano di una Gerusalemme nordica, pur nella certamente inferiore cura riservata al dettaglio, sono tutti elementi che permettono di avanzare un’attribuzione del nostro dipinto ad un pittore della bottega dei Fiamminghini.

Sono infatti noti con tale epiteto i due pittori fratelli milanesi, Giovanni Battista e Mauro della Rovere, che, pur essendo lombardi, erano nati da padre fiammingo, anch’egli pittore ed originario di Anversa: Giovanni Battista, il maggiore, classe 1561, era riuscito negli anni ad intessere ottimi rapporti con la committenza ecclesiastica, dai sacri Monti di Varallo ed Orta al duomo di Milano, dove realizzò alcuni quadroni con il ciclo di san Carlo, lavorando altresì a Monza, Novara, Brescia, Locarico, Pavia.

Mauro, di quattordici anni più giovane, non si limitò a seguire le orme paterne del fratello, divenendo anche allievo di uno dei più rinomati pittori del tempo, Giulio Cesare Procaccini, ma riuscì a guadagnarsi un gran numero di commissioni personali, soprattutto nel comasco e nel varesino. 

Tra le sue collaborazioni con il fratello Battista sono degni di particolare menzione gli affreschi dell’abbazia di Chiaravalle, in cui i Fiamminghini furono chiamati ad illustrare la gloria dell’ordine cistercense.

Elementi di ulteriore prossimità possono essere colti tra l’autore della nostra tela e l’artista emiliano-lombardo dei frammenti diaffreschi della certosa di Paradigna (Parma), il quale mostra di aver recepito la lezione dei Fiamminghini, pur rielaborandone il modello con libertà sufficiente a mantenere l’imprinting, capace di cominciarsi a svincolare dal rigore della lezione nordica, non mostrandosi ignaro delle suggestioni manieristiche.

Nel soggetto presentato tutto è equilibrio, di forme, colori e composizione: l’omaggio alla tradizione fiamminga è sapientemente bilanciato con maggiore libertà espressiva riservata ai panneggi, in cui ogni residuo di rigidità sembra cedere il passo ad uno sperimentalismo di cui l’artista dà prova in questa tela, dalle non trascurabili dimensioni, sicuramente di particolare interesse tanto per collezionisti (considerato il valore documentario dei non pochi richiami espressivi alle citate esperienze pittoriche) che per arredatori. 

In tal senso, anche la presenza del  teschio posto ai piedi della croce, che in tutte le composizioni del genere costituisce l’elemento figurativo di obbligatoria memoria del monte Golgotha (monte del cranio), travalica nel nostro dipinto la mera accezione di richiamo topografico per assumere un significato di squisito gusto fiammingo, peculiarmente riservato al tema della “vanitas”, in una raffigurazione in cui il Cristo non sembra affatto moribondo, quasi ad esprimere icasticamente l’insegnamento alchemico-ermetico celato nella scritta INRI (“igni renovatur natura integra”). 

 

 

 

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